Il mio psicoterapeuta si comporta in modo professionale?
Qui di seguito ho cercato di evidenziare alcune situazioni nelle quali uno psicoterapeuta non si comporta in modo professionale. Entriamo nel dettaglio:
Quando non è etico
Il percorso terapeutico si fonda su una relazione di fiducia, questo perchè il terapeuta dovrebbe essere naturalmente empatico verso il suo cliente. Ma l’empatia non è da confondere con la seduzione. Se per esempio un terapeuta va oltre l’empatia, questo può considerarsi una violazione del codice etico. Quando ci sono dei gesti, dei comportamenti o semplicemente delle parole che vi giungono come seduttive o sensuali c’è da stare attenti. Lo stesso vale per qualsiasi azione che risulti ledere il segreto professionale e la riservatezza. Il terapeuta è impegnato al rispetto della privacy.
Il tuttologo
Nel mondo della psicologia e della psichiatria ci sono diversi tipologie di specializzazione. C’è chi si occupa di bambini, chi dell’adolescenza, chi dell’età adulta o ancora chi delle coppie. È difficile essere tuttologi. Solitamente uno psicoterapeuta nel primo colloquio di conoscenza dovrebbe valutare se è in grado di seguire la persona o inviarla ad un altro collega specializzato in quell’ambito più specifico.
NO al lavaggio del cervello
Cosa succede se uno psicoterapeuta inizia a catechizzarvi facendo della “buona morale” e dandovi dei “buoni consigli” da seguire? Il lavoro di un buon terapeuta dovrebbe essere quello di favorire in voi la nascita di un dialogo interiore, dovrebbe essere in grado di lasciare sullo sfondo le proprie convinzioni e di entrare in contatto e identificarsi momentaneamente con le vostre. Può tentare di portarvi fuori dalla vostre certezze, dalle vostre identificazioni, dai vostri complessi, ma non criticarvi fino a farvi il lavaggio del cervello con il rischio di suscitare poi in voi certamente una crisi ancor maggiore.
Ho bisogno del suo consiglio
Spesso le persone che chiedono un consulto vogliono anche sapere cosa devono fare, vogliono avere dei consigli, sapere cosa è giusto. Purtroppo il compito dello psicoterapeuta non è quello di dare consigli, ma quello di aiutare la persona a trovare delle risposte che più gli si addicono, aiutarle a trovare la propria strada, aiutarle a conoscersi meglio. Con questo non voglio dire che il terapeuta deve essere una mummia imbalsamata che non risponde se interpellato. Ma di solito consigli e le prediche appartengono ad un altro lavoro e si effettuano in un altro luogo d’opera che non è la stanza d’analisi.
La relazione terapeutica
Dipende dall’orientamento del terapeuta, ma di solito si è tutti d’accordo nel ritenere che la relazione paziente–terapeuta è una relazione di lavoro, una relazione d’aiuto e non una relazione amicale. Per cui le informazioni personali del terapeuta non sono importanti. In taluni casi il terapeuta può si condividere degli episodi di vita personale a fini terapeutici, ma diffidate da coloro che usano l’ora di terapia per raccontarvi le loro vicende personali e magari anche i loro successi.
Sentirsi giudicati
Rogers parlava di uno spazio (interiore) di accoglienza non giudicante dove accogliere le persone che vengono in terapia. Non è una cosa facile da mettere in atto, perché implica che il terapeuta abbia fatto un buon lavoro su di sé per poter sviluppare un tale atteggiamento. Altrimenti capiterà che si tradisca con gesti, mimica facciale e altri movimenti involontari non verbali che sveleranno il suo pensiero. Se ci si sente giudicati dal proprio terapeuta è il caso di comunicarglielo in modo d’avere un chiarimento con lui. Una delle cose importanti in terapia è che ci si possa sentire liberi di esprimersi con sincerità.
Lo spazio terapeutico è una dimensione molto importante. C’è bisogno che ci si senta a proprio agio. Se questo non accade c’è da chiedersi perché. Potrebbe essere la persona che ha difficoltà ad aprirsi, a parlare di sé, a dare fiducia, e per questo si sente sempre un po’ scomoda all’interno di quella relazione, oppure che il terapeuta stia facendo effettivamente qualcosa di sbagliato. Viene da sé che questo potrebbe essere un eventuale punto su cui lavorare in terapia.
Ma se non ci si sente a proprio agio perché il terapeuta risponde continuamente al telefono o capita sovente che non ricorda quello che voi gli raccontate, che dimentica cose importanti o ancora si addormenta in corso d’opera, è il caso che mettiate in discussione la vostra scelta.
Le psicoterapie interminabili
Sento parlare di psicoterapie lunghe 10-20 anni e a volte rimango un po’ perplesso. .. Sono a conoscenza di casi in cui dopo tanti anni di psicoterapia, la sola idea di poter vivere senza il proprio terapeuta appare come qualcosa di angosciante e di difficile attuazione. In questi casi è probabile che il terapeuta, spero inconsciamente, abbia favorito l’instaurarsi di una relazione di dipendenza. Ma prima di trarre qualunque conclusione bisognerebbe conoscere la situazione. Si spera che il terapeuta sia in grado di valutare onestamente quando non è più in grado di aiutare quella persona e per questo interrompere il trattamento professionale.
Credo che a volte un autostima esagerata possa superare il riconoscimento dei propri limiti. E se, per quanto mi riguarda, preferisco relazionarmi sicuramente con persone della seconda categoria (se così si può definire..)ciò non toglie a ciascuno di noi la possibilità di poter esperimere il suo parere senza sentirsi necessariamente condizionato. mio malgrado, non ho studiato psicologia e psicoterapia, quindi non posso permettermi di entrare in specifici campi culturali non alla mia portata per logica “ignoranza del settore”, ma credo che se dovessi scegliere uno psicoterapeuta sicuramente orienterei la mia scelta verso chi dimostra un’umiltà di base tale da poter essere il primo passo per la costruzione di una relazione costruttiva.
Sono d’accordo con tutti i punti ad eccezione del secondo (il tuttologo). Sono uno psicologo sistemico e, in accordo con il mio orientamento, considero le specializzazioni come forme di collusione con le difese che le famiglie organizzano designando un membro del gruppo come portatore del sintomo. Nutro anche molti dubbi sulla pratica dell’invio che mi suona come un rifiuto del prestare aiuto. Molto meglio riuscire ad integrarsi tra diverse figure professionali (ad es. neuropsichiatra infantile e psicologo o psicoterapeuta). Un saluto, Marco
Ciao Marco, comprendo i tuoi dubbi e capisco l’approccio epistemologico sistemico, ma c’è da considerare che a volte ammettere a se stessi i propri limiti è una pratica ancor più terapeutica della terapia stessa. L’onestà unita alla “volontà di bene” il più delle volte può rivelarsi una pratica vincente. Il fatto di rendersi conto di non poter aiutare una data persona, non è rifiutarsi, è essere consapevoli che in alcuni casi si possono avere delle difficoltà e ammettere tranquillamente che ci sono altri colleghi che in quel caso riuscirebbero meglio di noi. non credi? Son d’accordo con te sull’integrazione delle diverse figure, sono un fermo sostenitore del lavoro di rete!
PS: scusami se non entro ancor più nel dettaglio, non credo sia questa la sede adatta, ma se vuoi contattami pure che ci scambiamo alcune idee. Un saluto, Gioele